L’horror domestico nei racconti delle scrittrici americane – Mattoni Americani Extra
Fantasmi, case sepolcrali e fantasie di imprigionamento: riflessioni sull’uso del soprannaturale nella letteratura statunitense, da Edith Wharton e Kate Chopin a Charlotte Perkins Gilman
La natura di una donna è come una grande casa piena di stanze: c’è l’atrio, il salotto, il soggiorno, ma più in là, molto più in là ci sono altre stanze e le maniglie di quelle porte non vengono mai girate, nessuno sa come vi si acceda, nessuno sa dove conducono.
Edith Wharton, Pienezza di vita
Nella letteratura americana tardo-ottocentesca l’elemento soprannaturale ha una rilevanza indubitabile. Lo abbiamo approfondito in uno speciale numero della newsletter dedicato al tema, analizzando le atmosfere spettrali degli scritti di Nathaniel Hawthorne per poi approdare ai racconti dell’orrore di Edgar Allan Poe e, in particolare, The Fall of the House of Usher.
Altrettanto indubitabile è che al centro di queste narrazioni ci sia proprio la casa infestata, tra i dispositivi narrativi più significativi del genere fantastico, traghettato direttamente dalla letteratura europea gotico-vittoriana. Questo motivo rientra tra le declinazioni letterarie più fertili degli Stati Uniti ed è arrivato pressoché intatto – conservando tutta la sua potenza narrativa – fino alla contemporaneità. Già dalla seconda metà del Novecento, Shirley Jackson ha avuto l’intuizione di formulare una rilettura originale del lato inquietante e spaventoso della “casa borghese”, proiettando in essa i fantasmi della psiche delle sue protagoniste.
Anche grazie alla sua eredità, sono oggi tantissimi gli esempi di new gothic e in particolare di female gothic: adattamenti in chiave moderna e femminista dei temi vittoriani di intrappolamento, parassitismo (vampirismo) e apparizioni fantasmatiche. Qualche esempio? A. S. Byatt, Layla Martinez, Sarah Waters, Carmen Maria Machado ecc.
In effetti, l’horror domestico assume connotazioni precipue quando la voce narrante è quella di una donna. Perché? Lo approfondiremo nello speciale di oggi che tenterà di tracciare una panoramica, non esaustiva, ma piuttosto suggestiva, del racconto del terrore legato alla casa e alla condizione femminile nella letteratura americana tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.
Se pensiamo alle donne della letteratura americana dell’Ottocento, la scrittrice che fulminea appare nella nostra immaginazione è la figura apparentemente pacata e rassicurante di Louisa May-Alcott, autrice del celebre romanzo di formazione Piccole Donne (1868), la storia moralmente edificante della famiglia March che ha accompagnato l’infanzia e l’adolescenza di generazioni di ragazze in tutto il mondo. Alcott – che è cresciuta nella sfera d’influenza emersoniana di Concord, a Boston – è entrata direttamente nel canone americano per aver celebrato valori sociali “sani” degli Stati Uniti: un’etica del lavoro inflessibile, l’integrità morale e quella self-reliance propugnata da Emerson, che è diventata un pilastro della cultura americana, quella fiducia incrollabile nelle proprie capacità e nella propria volontà. Uno dei tratti più progressisti e rivoluzionari della storia di Piccole Donne è anche la sisterhood, quel rapporto speciale di solidarietà e interdipendenza che definisce l’identità delle quattro protagoniste e la modernità della storia.
Troppo spesso marginalizzata nel suo impegno pedagogico, il ritratto che viene fatto della scrittrice è sempre molto luminoso, quasi lezioso, come di una filantropa, completamente dedita ad attività altruistiche (crebbe nell’utopismo sociale del padre, fu un’abolizionista e un’attivista dei diritti umani). Ci si dimentica che anche Alcott esercitò le sue doti nella letteratura gotica e nella scrittura delle cosiddette “lurid stories”. Proprio come l’eroina di Piccole Donne, Jo, insofferente al moralismo e al perbenismo e con molta voglia di sperimentare, anche Alcott scrisse racconti di paura, sotto lo pseudonimo maschile di A. M. Barnard. Anzi, Alcott dichiarò anche che la sua naturale predisposizione fosse proprio per queste narrazioni sensazionaliste, al di fuori della “rispettabilità” in cui purtroppo poi fu intrappolata. Probabilmente l’uso di uno pseudonimo le fu utilissimo per proteggersi dal giudizio familiare.
Questi racconti – come Behind the Mask: or A Woman’s Power (1866) – mostrano un lato molto insolito non solo della scrittrice ma anche della tipica moralità delle protagoniste femminili dell’epoca. Qui c’è una descrizione esplicita di follia, seduzioni, manipolazioni e vizi proibiti. È come se in questa cornice narrativa, l’autrice si sentisse più libera di ritrarre un diverso tipo di femminilità, un doppione pericoloso che si cela, appunto, “dietro la maschera” e che segnala il lato represso e ignoto di ogni donna.
È possibile, quindi, che nella letteratura di genere, considerata “meno degna”, le scrittrici abbiano trovato un rifugio in cui sentirsi più legittimate nel mostrare un carattere più eversivo e ribelle?