Virginia Woolf e la sua Clarissa allo specchio
“La signora Dalloway” è un romanzo filosofico sulla trascurabilità e la precarietà degli esseri umani e la loro fragilità di fronte alle maree di dolore, desideri e paure che travolgono le loro vite
È arduo parlare di Virginia Woolf come è arduo parlare di qualsiasi autrice con una biografia e un profilo storico così ingombranti. Il rischio è quello di eclissare il “valore” delle opere, a favore di resoconti spicci che non rendono quasi mai giustizia alla qualità artistica dei classici giunti fino a noi.
Certamente Virginia Woolf è stata un’antesignana del femminismo, rivendicando il diritto delle donne ad avere “una stanza tutta per sé”1 per poter scrivere, studiare, maturare, vivere in maniera indipendente. Proprio lei, che pur se cresciuta in un ambiente intellettualmente stimolante – a contatto con le più influenti figure della cultura vittoriana, come Henry James e T.S. Eliot – non poté avviare un percorso di studi formale, a causa del suo sesso ma anche della sua alterità e insofferenza rispetto alle tradizioni. Non si laureò mai, sebbene frequentò le lezioni del King’s College e si educò principalmente come autodidatta, costruendosi comunque un’erudizione notevole. Amava dire: “non sono mai stata a scuola”, reclamando in qualche modo la sua natura di outsider.
Certamente è stata una personalità fondamentale del Novecento inglese, avendo fondato e partecipando al gruppo di Bloomsbury, che radunava inizialmente proprio nella sua casa di Gordon Square un vivacissimo circolo di intellettuali, artisti e critici, provenienti principalmente dall’Università di Cambridge: oltre ai figli del celebre critico letterario Sir Leslie Stephen – Thoby, Adrian, Vanessa e Virginia – ne fecero parte il romanziere E.M. Forster, il critico d’arte Clive Bell, lo scrittore Leonard Woolf, Lytton Strachey, l’economista John Maynard Keynes, il pittore Duncan Grant e in seguito anche Roger Fry.
Bloomsbury divenne quindi non solo il nome di un quartiere di Londra, ma di un ristretto gruppo di giovani intellettuali – si facevano chiamare Gli Apostoli – con il proposito di rivoluzionare i costumi di un’intera epoca, propugnando pacifismo, uguaglianza di genere e liberazione sessuale. Il loro stile di vita – filosoficamente liberale nei rapporti di convivenza, amore bisessuale e omosessuale, emancipato dalle convenzioni dell’epoca e politicamente impegnato – era un simbolo vivente dei nuovi valori moderni, un rifiuto dell’ipocrisia vittoriana, così come dei dettami austeri della società edoardiana. La loro intensa attività intellettuale e il loro fervore per l’avanguardia si tradusse anche nella fondazione di una casa editrice, la Hogarth Press, diretta dai coniugi Leonard e Virginia, che dal 1917 pubblicò in Inghilterra autori come Freud, Dostoevskij, Cechov2.
La biografia di Woolf è stata scandagliata così attentamente da trarne innumerevoli libri, film, trasposizioni di qualsiasi genere. Ogni interpretazione e adattamento si è dedicato ad aspetti diversi, lasciando veramente poco di inesplorato: chi si è concentrato sulle sue relazioni extramatrimoniali (come quella con Vita Sackville West, scrittrice anticonvenzionale che la ispirò per la stesura di Orlando), chi ha indagato la sua depressione e la conseguente morte per suicidio a 59 anni, avvenuta lasciandosi affogare in un fiume del Sussex, dove viveva con il marito. Purtroppo, tali tematiche spesso finiscono per fagocitare l’intera esperienza di Woolf, banalizzando, assolutizzando o feticizzando la malattia mentale e la sessualità della scrittrice e riducendo a orpello il resto.
Se la sua vita è stata in qualche modo un manifesto poetico e filosofico, l’eredità più preziosa per noi lettori è la sua opera, che rappresenta, al pari del lavoro di James Joyce, il vertice del Modernismo. Passato alla storia come il movimento che ha spezzato l’armonia compositiva del romanzo, dissolvendone le categorie spazio-temporali, il Modernismo ha rivoluzionato il modo di intendere il racconto, portando al centro la soggettività e l’inconscio, rinunciando definitivamente a qualsiasi realismo convenzionale. Celebrato per essere un momento di rottura nella storia letteraria, oggi del Modernismo possiamo mettere da parte gli aspetti più drastici e destabilizzanti, apprezzandone il brio, l’audacia compositiva, ma anche il ritmo, il movimento cinematografico, la fluidità del testo, le sonorità.
De La signora Dalloway (1925), testo indubbiamente innovativo, oggi ci commuove più il lirismo e, ancora di più, l’affetto e l’attaccamento che la sua protagonista prova per la vita. Sebbene formalmente esigente, la prosa ci appare anche limpida, luminosa. I momenti sono sì elegiaci, a tratti enigmatici, ma non cervellotici, freddi o incomprensibili. Virginia Woolf è una scrittrice complessa ma non oscura, mai.
Proviamo allora a tracciare un profilo di quest’autrice a partire dal suo capolavoro, evitando l’aneddotica biografica, i tecnicismi letterari e tuffandoci difilato nel cuore del testo.
“Sa il cielo perché l’amiamo tanto, e perché la vediamo così, la fabbrichiamo, la mandiamo all’aria, ricreandola ogni volta daccapo; ma fanno lo stesso anche le straccione più miserabili, anche gli ultimi dei reietti accucciati sui gradini delle porte (a bersi la propria rovina); e non ci sono atti del Parlamento che tengano, ne era certa, proprio per questa ragione: perché anche loro amano la vita”.
Clarissa Dalloway ama la vita. Tra le molte contraddizioni del suo carattere e le pochissime informazioni sul suo conto, questo è probabilmente l’unico punto fisso dello straordinario romanzo multiforme di cui è protagonista: La signora Dalloway.
L’omonimia non è un omaggio alla tradizione ottocentesca di intitolare l’opera con il nome dell’eroe e dell’eroina, ma è semplicemente un’indicazione per il lettore: il romanzo inizia e finisce con Clarissa. Si apre con: “La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei” e si conclude con “Perché, eccola, era lì”. La signora Dalloway, naturalmente. Sempre lei. Ed è nell’interpretazione del suo animo – così sfuggente e imperscrutabile che persino chi la ama non riesce a farsene un’idea precisa – che si gioca il senso e, ancor più sostanzialmente, tutta la sensibilità del testo.
Per ricostruire Clarissa, per conoscerla, non possiamo fare le solite operazioni di decifrazione dei caratteri letterari. Non immaginate di dover raccogliere e mettere insieme i tanti frammenti sparsi nel testo, gli indizi e le allusioni seminate dall’autrice nel corso del romanzo. Perché non è un ritratto quello di Virginia Woolf, non è un’immagine fissa bensì un movimento. I sentimenti di Clarissa, così come i suoi ricordi, ci arrivano come delle onde, attraverso il moto oscillatorio e fluttuante della scrittura di Woolf. Solo seguendo la corrente si possono sondare “le vitree profondità” del romanzo. Proviamo a farci trascinare.
Seguiamo durante il corso di un’intera giornata di giugno del 1923, i preparativi per una festa che si terrà a casa della signora Dalloway. Clarissa, una signora dell’alta società londinese, di circa cinquant’anni, sposata con un deputato conservatore, vuole ritornare alla mondanità dopo una non ben specificata influenza (si ipotizza che fosse la spagnola) che l’ha debilitata fisicamente e prostrata moralmente. Va quindi a comprarsi dei fiori per celebrare un ritorno alla normalità, un ritorno alla vita che, come abbiamo detto, ama molto (“adorava la vita, godere era nella sua natura”).
Passeggiando per le vie di Londra e osservandone il brulichio di impressioni – come una “flaneuse, una traduttrice di sinestesie”, la definisce Antonella Anedda nella sua introduzione al volume Einaudi – la sua prospettiva si incrocerà con quella di molti personaggi, di sua conoscenza e non, a cui passerà il testimone narrativo, con uno scambio fluido e continuo dei punti di vista. Tra questi spicca quello che si potrebbe definire il deuteragonista o alter ego di Clarissa: Septimus Warren Smith a cui, è bene precisare, la signora Dalloway non rivolgerà mai nemmeno una sillaba.
L’idea del romanzo – che ha un intreccio a dir poco scarno – si poggia proprio sul dualismo tra vita e morte, “sanity and insanity” (per usare le parole della stessa Virginia Woolf nei suoi diari), incarnato da questa coppia di personaggi che non ha nulla in comune, anzi, sono l’uno l’opposto dell’altra. Septimus è un poeta, colto, di estrazione sociale medio-bassa, reduce di guerra, depresso e paranoico, segnato dalla perdita del suo miglior amico Evans. Mentre Clarissa è una donna dell’upper class, mondana e snob, sposata con un tory che trova licenzioso leggere ad alta voce i sonetti di Shakespeare e i cui problemi si riducono a un difficile dialogo con la figlia e una rivalità con la sua precettrice, Miss Kilman. Inoltre, se Clarissa è appena uscita dalla malattia, Septimus è nel pieno di una crisi psicotica e soffre di allucinazioni sonore; il trauma da esplosione era infatti comune tra i soldati delle trincee.
Al contrario di Clarissa, ha perso il gusto per la vita e un ritorno alla normalità per lui si rivelerà impossibile. Il matrimonio con Lucrezia, che desidera un figlio, è guastato dalla depressione che viene prima sottovalutata dal dott. Holmes – che pensa di guarirlo con una sana alimentazione e del cricket – e poi freddamente clinicizzata dal dott. Bradshow, un medico competente ma incapace di mostrare empatia e umanità verso Septimus che, alla fine, sentendosi perseguitato dalla società, si suicida. Quando viene a sapere della sorte di quest’uomo per lei sconosciuto, in un momento di epifania, Clarissa vede irrompere la morte alla sua festa e riesce a rispecchiarsi in un uomo lontanissimo da lei, creando un legame inedito.
“Loro continuavano a vivere (doveva tornare di là; le stanze erano ancora gremite; continuava ad arrivare gente). Loro (per tutto il giorno aveva pensato a Bourton, a Peter, a Sally), sarebbero invecchiati. Una cosa c’era che importava; una cosa, avviluppata di chiacchiere, sfigurata, oscurata anche nella sua vita, lasciata cadere ogni giorno tra corruzione, menzogne, chiacchiere. Questa cosa lui l’aveva preservata. La morte era una sfida. La morte era un tentativo di comunicare, perché le persone avvertono l’impossibilità di raggiungere il centro che, misticamente, sfugge loro. L’intimità si sgretola, l’estasi svanisce, si resta soli. C’era un abbraccio nella morte. Ma quel giovane uomo – che si era ucciso – si era buttato stringendo a sé il suo tesoro?”.
Capisce che, come lei, anche Septimus3 è stato in qualche modo capace di vedere la verità della vita, la sua doppiezza e mutevolezza: da un lato gioia e amore, dall’altro terrore e tragedia. Se Clarissa, però, riesce ad accettarla e a continuare a vivere, Septimus la rifiuta, non riuscendo a vincere il paradosso di esistere, sapendo di dover morire e sapendo che spesso la morte è causata dall’uomo stesso, capace di creare tanto orrore quanto meraviglia. Poesia e guerra non possono coesistere in lui.
Al contrario, Clarissa ne accetta le contraddizioni4, lei stessa è contraddittoria. Afferma di essere un’ignorante, di non sapere nemmeno cosa sia l’equatore, eppure legge libri di altissimo profilo ed è dotata di una sensibilità fuori dal comune:
“La sua emotività era tutta di superficie. Sotto sotto era molto accorta – assai miglior giudice dei caratteri di quanto fosse Sally, per esempio, e con ciò perfettamente femminile. Con quel talento straordinario, quel talento delle donne, di ricreare il proprio mondo dovunque le capitasse di essere”.
È una donna “così trasparente” e allo stesso tempo “così imperscrutabile”. Vive di convenzioni e mondanità, la perfetta padrona di casa che appiana le grinze, incoraggia la conversazione, mette gli ospiti al riparo da qualsiasi attrito. Clarissa è il prototipo di moglie e madre inglese, il prodotto impeccabile del suo ambiente: tutto il perfezionismo dell’età edoardiana, tutta la cortesia e la buona educazione inglese. Tanto da risultare “fredda”, da avere una legnosità di fondo che la tiene formalmente distante da soggetti più eccentrici, come il suo ex-pretendente Peter Walsh che si è trasferito in India, lievemente nauseato dall’establishment della Londra salottiera o la sua amica/amante di gioventù Sally Seton, dall’animo artistico e ribelle. “Teneva troppo al rango, alla vita di società, al successo”. In qualche modo, il vero spirito di Clarissa è stato portato via dagli Hugh, dai Dalloway e da tutti i perfetti gentiluomini che come profetizzato da Sally stessa le hanno “spento l’anima”.
Eppure, non è sempre stata così. Durante la mitica giovinezza trascorsa nella casa a Bourton, ricordata con sincero affetto e turbamento, con Sally e Peter si era creata un’affinità elettiva, un triangolo per niente convenzionale, alimentato da stimoli intellettuali tanto quanto dalla sensualità. Guardiamo da una nuova angolazione la signora Dalloway: emerge ora una Clarissa vitale e anticonformista che ricorda ancora il suo primo bacio a Sally come il momento più lieto della sua vita; una Clarissa che senza reticenze afferma che lei e Peter: “entravano e uscivano senza sforzo l’uno dalla mente dell’altra”.
Il matrimonio ha quindi opacizzato in parte la personalità di Clarissa che si è fatta avvincere dall’etichetta e dalle norme di classe. Sebbene siamo lontani dal progressismo e dall’originalità di vita e pensiero della stessa autrice, Virginia Woolf riscatta Clarissa dai ruoli che la protagonista stessa si è scelta per sé e ne illumina la complessità e le ambiguità. Clarissa è una snob ma il suo modo di coltivare e conservare nel suo animo gli affetti è commovente.
In questo possiamo rintracciare anche una vicinanza emotiva con l’autrice stessa che riservava all’amicizia e alla sorellanza un rilievo impareggiabile: pensiamo al legame con la sorella Vanessa, la fertile rivalità con l’amica Katherine Mansfield, l’amore con il marito e instancabile collaboratore, Leonard, e i rapporti di sodalizio con tutte le personalità del gruppo di Bloomsbury. La personalità di Clarissa – probabilmente come quella di Virginia - è stata forgiata più da legami al di fuori delle convenzioni che dal matrimonio e dalla maternità. L’amicizia e la passione amorosa hanno una capacità trasformativa e un’influenza incommensurabili. Ma anche le relazioni che si intrecciano con degli sconosciuti hanno un peso.
“Sentiva strane affinità con persone a cui non aveva mai parlato, una donna nella via, un uomo dietro un bancone – perfino con gli alberi, con i granai. Approdava a una teoria trascendentale che, visto il suo orrore per la morte, le consentiva di credere, o dire di credere (malgrado il suo scetticismo) che, essendo le nostre apparizioni, la parte di noi che appare, così transitorie rispetto all’altra, la parte invisibile di noi, che si dispiega immensa, l’invisibile potrebbe sopravvivere, e ritrovarsi in qualche modo attaccato a questa o quella persona, o perfino infestare certi luoghi, dopo la morte. Chissà – chissà”.
A distanza di quasi un secolo, ciò che colpisce del romanzo è ancora la sua capacità di raccontare l’alterità e la diversità. Non solo per la descrizione esplicita di un amore tra due donne (incredibile per l’epoca) ma proprio per la rappresentazione originalissima di legami non scontati e atipici. Anche solo l’idea di scegliere come protagonisti due persone che nemmeno si conoscono è rivoluzionaria. Aggiungiamo poi il punto di vista di un uomo con una malattia mentale oppure la scelta di narrare l’ascendente misterioso che un’insegnante povera e brutta (Miss Kilman) ha per una giovane donna ricca e avvenente (la figlia di Clarissa, Elizabeth).
Ancora più brillante è poi il modo allusivo e lirico in cui è trattata la materia narrativa, con una grazia e una delicatezza speciali. Questo approccio all’empatia è stato poi ulteriormente approfondito nel romanzo Le ore di Michael Cunningham che racconta la vita di tre donne, in luoghi ed epoche diverse, che sembrano non avere nulla in comune, se non, appunto, La signora Dalloway. Un’opera raffinata di omaggio e rivisitazione del lavoro di Woolf che interpreta in maniera elaborata non soltanto il romanzo in sé ma anche la vita della scrittrice, dandole nuovo respiro. Vincitore del Premio Pulitizer nel 1999, il libro ha anche ispirato il film premio Oscar di Stephen Daldry con Nicole Kidman, Julianne Moore e Meryl Streep.
La signora Dalloway è un romanzo filosofico sulla trascurabilità e la precarietà degli esseri umani e la loro fragilità di fronte alle maree di dolore, desideri e paure che travolgono le loro vite. È anche il motivo per cui tutto si muove, fluisce o beccheggia come una nave durante la navigazione. Niente è definitivo, persino i nomi non hanno poi molta importanza.
“Aveva la bizzarra sensazione di essere invisibile, non vista, non conosciuta; ormai non c’erano più né matrimonio né figli, ma solo questa stupefacente e piuttosto solenne processione insieme a tutti gli altri, su per Bond Street, questo essere la signora Dalloway, neppure più Clarissa, solo la moglie di Richard Dalloway”.
Proprio per questo motivo, però, la fugacità assume più sostanza e definizione. Persino il pensiero più veloce, l’impressione più tenue, si trova in un pozzo luminoso da cui la scrittrice può estrarre valore. In Virginia Woolf la provvisorietà diventa leggerezza, la rapidità diventa ritmo, ogni lampo diventa energia per la sua prosa. L’impressione è che ogni scheggia, ogni parola, ogni suono, ogni immagine scelta, sia indispensabile per tenere vivo il fuoco. Il signor Palomar di Italo Calvino diceva: “la superficie delle cose è inesauribile”.
Nonostante nel 1925 – anno di pubblicazione del romanzo - si sia perduta completamente l’aspirazione a raffigurare il mondo in maniera oggettiva da un punto di vista autorevole e sicuro, la letteratura ne La signora Dalloway conserva ancora la capacità di rivelare l’animo umano, un potere quasi mistico che attinge a una dimensione pre-razionale, quasi mitico-magica5.
Ogni frase è un incantesimo che risveglia la memoria, crea connessioni e suscita sentimenti di comunanza con soggetti lontanissimi da noi, persino una donna di mezza età altolocata che ha vissuto un secolo fa in una città straniera.
Come riesce a farlo?
Nel modernismo, concetto e forma tendono ad avvicinarsi, per non dire a coincidere. È davvero riduttivo cercare di condensare La Signora Dalloway in un unico tema o in nuclei semantici precisi. Piuttosto è utile rintracciarne i motivi formali, le assonanze, le immagini metaforiche – come in una poesia, più che nella prosa - che diventano quindi il vero significato, la vera struttura del libro. Il Modernismo registra la rottura dell’ordine realista del romanzo ottocentesco: non si segue più un personaggio a tutto tondo ma un frammento, non si ricerca il senso semantico ma formale. Al servizio di questa poetica, intervengono formule e stilemi nuovi che accentuano una tendenza estetizzante tipica dello spirito modernista. Le categorie tradizionali di spazio e tempo, così come la linearità della narrazione si frantumano. Si rivela un nuovo modo di concepire e abitare le pagine del romanzo: lirico, suggestivo, più enigmatico.
Prendendo a piene mani dalla tecnica dell’associazione libera freudiana, i pensieri e le impressioni dei personaggi si susseguono, o meglio, scorrono senza ostacoli creando un monologo interiore che non descrive la realtà oggettiva – inconoscibile – ma da cui scaturisce l’inconscio del narratore.
Queste nuove esigenze filosofiche, in Virginia Woolf si traducono in uno stile simile al flusso di coscienza joyciano, sebbene nel caso specifico de La signora Dalloway l’intreccio rimane sempre pienamente intellegibile. Al contrario di Ulisse che, per via dei suoi riferimenti omerici, esige una certa competenza letteraria per essere compreso fino in fondo, il romanzo di Woolf rimane accessibile, sicuramente il più accessibile della scrittrice. Il motivo è che la prosa si concentra su una corrente associativa di impressioni sensoriali, di emozioni ed epifanie che possono attraversare chiunque, senza che ci sia bisogno di conoscenze pregresse. Basta essere umani. Non è un romanzo di tesi e idee ma di sensazioni, memorie, istanti.
Apparentemente il ritmo della giornata de La signora Dalloway è scandito da un riferimento concreto e misurabile: le ore - il titolo originario del romanzo doveva appunto essere The Hours – che vengono segnate diligentemente dal Big Ben nel corso della narrazione. Il tempo lineare dei rintocchi dell’orologio, però, è ben presto destituito dal ben più imprevedibile tempo interiore vissuto dai personaggi che si alternano il ruolo di narratori, rendendo il concetto stesso di temporalità relativo ed elastico per ogni soggetto.
Questa dilatazione temporale, che rende una sola giornata interminabile, è già ben evidenziata nella scena d’apertura in cui, come fa notare la traduttrice Nadia Fusini, “vediamo la protagonista svegliarsi, aprire una finestra… e tutto ad un tratto ci ritroviamo nel passato. Vent’anni prima, la signora Dalloway non è che una ragazza”. Infatti, dopo la celeberrima frase sull’intenzione di andarsi a comprare i fiori da sola (leggendola oggi non si può non canticchiare Miley Cyrus, “I can buy myself flowers”), la mente di Clarissa si rivolge altrove:
“E poi, pensò Clarissa Dalloway, che mattina – fresca come se fosse scaturita per dei bambini su una spiaggia. Che allegria! Che tuffo! Aveva sempre avuto quella sensazione quando, con un sommesso cigolio dei cardini, lo stesso che udiva ora, spalancava le portefinestre a Bourton”.
Bourton è la casa di campagna sul Severn dove Clarissa è cresciuta. Il flusso della narrazione si rivela subito oscillatorio, un movimento ondivago tra passato e presente in cui le impressioni si succedono per associazione libera, una tecnica psicanalitica – ripresa dai modernisti – che consiste nel riferire tutte le idee e le parole che si presentano alla mente, senza compiere nessun tentativo di controllo cosciente. In questo caso, la soggettività della protagonista ci riporterà più volte alla sua infanzia a Bourton, un luogo magico, che si ammanta di meraviglia, e che la protagonista rivisita spesso con la memoria.
Tuttavia, Clarissa non è un personaggio eccessivamente nostalgico, così come non lo è il romanzo, in generale. La straordinaria capacità di Woolf è quella di allontanarsi dal tipico modo di trattare il tema della memoria in letteratura, del dolore e della malinconia per il passato che non può più ritornare. Nei suoi libri il peso del tempo perduto si fa lieve. Ogni ricordo riportato alla mente si rigenera, crea e disfa associazioni diverse, alla luce del presente, fa nascere nuove riflessioni e impressioni. C’è una tristezza di fondo ma è velata.
Ogni pensiero – per quanto provocato dal tempo passato – assume una luce diversa, soprattutto se ad illuminarla c’è la poesia di Woolf. Se ci immergiamo ogni giorno in un fiume non verremo mai bagnati dalla stessa acqua. Allo stesso modo, la nostra mente – che pure ha a disposizioni sorgenti limitate - è inesauribile nel suo continuo connettere elementi eterogenei della nostra esistenza, tessendo sempre trame inedite.
Nel tentativo di ricreare la vita mentale dell’essere umano e i suoi meccanismi, nel romanzo modernista non è solo il tempo a mutare ma anche l’ambiente in cui i personaggi si muovono. Lo spazio fisico apre un varco per l’imporsi dello spazio interiore. La canonica descrizione di luoghi e ambienti lascia il posto ai “moments of being”, letteralmente i "momenti di essere", in cui sono le visioni interiori che occupano lo spazio narrativo, vere e proprie epifanie che rivelano “la parte invisibile e tacita della vita”.
A deformare lo spazio narrativo intervengono anche la punteggiatura e i segni grafici. In particolare, le parentesi sono utilizzate non per fare un inciso e quindi interrompere il discorso bensì quasi per addolcirlo, per ritmarlo, quasi a simulare un’onda. Anche la loro forma, d’altra parte, suggerisce un movimento.
A rafforzare questa sensazione di zampillìo, il testo non è scandito da capitoli o paragrafi netti, ha pochissimi stacchi e si articola come una corrente dolce ma inarrestabile. Non c’è un vero punto di approdo, il discorso ricrea le maree dei nostri pensieri che non cessano mai di scorrere, come una cascata.
“Queste sono le visioni che incessantemente vengono a galla, affiancano, o ostacolano, le cose reali; spesso sopraffacendo il viaggiatore solitario”.
Colpisce l’estrema coerenza formale di Woolf che per suscitare nel lettore quest’idea di fluidità, adatta anche il lessico e l’immaginario simbolico a questo scopo. Fa un largo uso di metafore acquatiche, davvero impossibile enumerarle tutte. A mero titolo d’esempio: “Come per afferrare la goccia che cade, Clarissa si tuffò nel cuore del momento”; “Il lento gocciolare delle sensazioni”. E ancora: i luoghi “fluttuano”; Septimus sente un “rumore d’acqua nella stanza”. E infine: “Aveva la perpetua sensazione, anche mentre guardava i taxi, di essere altrove, in mare aperto e sola”.
Anche la palette di colori che ravvisiamo nel romanzo riproduce le tonalità dell’acqua: le ortensie azzurre, il soprabito azzurro-verde di Clarissa, e moltissimo grigio, la macchina grigia del dott. Bradshow, tutta Londra con i suoi uomini in grigio e così via. Questi espedienti formali non sono vezzi ma strumenti fondamentali per creare un’atmosfera subacquea dove persino la luce non illumina ma bagna gli oggetti colpiti.
A fluttuare ne La Signora Dalloway è tutto. Persino i fenomeni fisici come il vento ricreano – con una tecnica cinematografica mirabile – un movimento che sposta ogni cosa e agevola anche il passaggio da un punto di vista all’altro. Tutto è provvisorio, relativo, precario. Sembra risibile in un romanzo del genere adottare un unico narratore – infatti nel racconto risuonano voci plurime – figuriamoci un narratore onnisciente. L’autorialità non ha più il compito di restituire un’idea concreta e verosimile della realtà circostante bensì quella di mostrarne la variabilità, la complessità e la mutevolezza.
Più che l’idea di mondo, la scrittura mostra le idee di mondi, le mille e più sfaccettature, le profondissime differenze di percezione che ci sono tra le persone. Quando Clarissa dice “la sensazione che fosse molto, molto pericoloso vivere anche un giorno soltanto”, noi lettori possiamo interpretarlo come un invito ad abbracciare l’enorme complessità del vivere, tanto che il peso di questa sensibilità che è in grado di vedere i tanti aspetti della vita, rende faticoso il vivere stesso.
C’è una citazione particolarmente significativa all’interno del testo. Riprende il punto di vista di Peter Walsh che riflette sul suo rapporto con Clarissa, sull’influenza che ha avuto su di lui, nonostante gli incontri sporadici e le difficoltà dovute alle loro differenze di status sociale. Riassume perfettamente il tono del libro: nostalgico, senza essere eccessivamente malinconico, ma anzi, pieno di meraviglia, come se dietro ogni sensazione ci fosse una possibilità, come se ogni momento fosse sempre sul punto di sbocciare.
“Per quanto brevi, discontinui, spesso penosi, per via delle sue assenze o delle interruzioni (…), i loro incontri avevano comunque avuto sulla sua vita effetti incommensurabili. C’era un mistero in tutto ciò. Ti veniva dato un seme secco, aguzzo, sgradevole – l’incontro in sé, il più delle volte terribilmente penoso. Eppure, nella distanza, nei posti più impensati, sbocciava, fioriva, emanava il suo profumo, ti lasciava toccare, gustare, guardarti intorno, percepirlo e comprenderlo nella sua interezza, dopo che per anni lo si era smarrito. Così lei gli era tornata in mente, sul piroscafo, sull’Himalaya, evocata dalle cose più strane (come accadeva a Sally Seton, quell’oca generosa ed entusiasta, che pensava a lui quando vedeva delle ortensie azzurre). Di tutte le persone che aveva conosciuto, nessuna l’aveva influenzato quanto lei. E sempre presentandosi senza essere richiesta, fredda, signorile, critica; oppure seducente, romantica, a rammentargli i campi o i raccolti inglesi”.
La concatenazione di istanti che Virginia Woolf ricostruisce e fissa in forma di romanzo ci racconta la verità chimerica di ogni attimo che viviamo, la sua doppiezza. Dietro ogni desiderio c’è sempre la paura che non si avveri (o che si avveri), dietro ogni momento lieto, la certezza che finirà. Per dirlo con le sue parole, nel racconto ritroviamo: “avvolgente, misteriosa, infinitamente ricca, la vita”.
Approfondimenti
Diari, Virginia Woolf
Voltando pagina, Saggi, Virginia Woolf
Cambiamenti di prospettiva, Lettere 1923-29, Virginia Woolf
Virginia Woolf, Quentin Bell
Virginia Woolf e i suoi contemporanei, Liliana Rampello
Possiedo la mia anima, il segreto di Virginia Woolf, Nadia Fusini
Un anno con Virginia Woolf, Nadia Fusini
Scrivi sempre a mezzanotte, Virginia Woolf e Vita Sackville-West
Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf, storia di un’amicizia, Sara De Simone
Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing life, a cura di Nadia Fusini
Per bibliografia completa, studi, articoli accademici ed eventi:
Italian Virginia Woolf Society
Sulla Hogarth Press:
A publisher of one’s own: Virginia and Leonard Woolf and the Hogarth Press – Guardian
Se hai dei suggerimenti su tematiche da affrontare, libri, meme e/o dritte di ogni tipo, scrivimi pure sui miei account social. Se vuoi informazioni sull’abbonamento scrivi a: info@nredizioni.it