La crudeltà della solitudine: Richard Yates e la short story – Mattoni Americani Extra
L’esplorazione eclettica nel racconto breve
Come molti lettori prima di me, mi sono avvicinata a Richard Yates (Yonkers, New York, 1926-1992) solo dopo aver letto Francis Scott Fitzgerald ed essere stata magnetizzata dalla sua prosa. È stato poi facile approdare a Yates, un autore legatissimo a Fitzgerald e in cui è possibile rintracciare quella stessa disperata bellezza, quella stessa vulnerabilità.
Da dove nasce questa associazione? Entrambi furono due assi del racconto americano, tanto da diventare dei modelli nell’arte della short story. Ed è, del resto, evidente quanto Yates abbia creato una naturale prosecuzione della narrativa fitzgeraldiana, accogliendone l’eredità letteraria di celebrazione e allo stesso tempo di vituperio del sogno americano.
Richard Yates nasce nel 1926, nel momento in cui la carriera di Fitzgerald aveva raggiunto il suo picco, nel Greenwich Village, a New York, in un ambiente familiare difficile (il padre assente, la madre frustrata e infelice) che lo porterà a rifugiarsi nei film e nei libri. Come Fitzgerald, Yates era un uomo di bell’aspetto e dalle grandi ambizioni. Dell’autore, che considerava il suo maestro, amava la precisione dello stile, unito all’ossessione per il fallimento, tanto da innamorarsene quasi e farne lo scheletro dei suoi scritti.
L’analogia risulterà quasi fatale: entrambi ebbero un successo effimero in vita (all’esordio per Fitzgerald quando aveva soli 23 anni e tardivamente, a 35 anni, con Revolutionary Road, per Yates), venendo poi progressivamente abbandonati dal pubblico letterario e dovendo ripiegare sulle sceneggiature di Hollywood. Sarà lo stesso Yates a tracciare il parallelismo tra i due autori-sceneggiatori, nel racconto Saying Goodbye to Sally.
Entrambi poi furono perseguitati dallo stesso demone: l’alcol. E tormentati dal loro talento, per cui non ottennero mai del tutto il riconoscimento atteso. Se Fitzgerald, infatti, morì in ristrettezze e rimpianti, anche Yates è annoverabile tra gli autori più dimenticati e bistrattati della storia letteraria statunitense. È generalmente considerato uno scrittore degli scrittori. Quasi profetizzando questa “maledizione”, ne Il vento selvaggio che passa (1984) scriverà di un aspirante poeta che non riesce a raggiungere la fama, una figura ricalcata chiaramente su Francis Scott Fitzgerald.
Non stupisce che i racconti e i romanzi di Yates si concentrino quindi proprio su queste aspirazioni mancate, su una grandezza sperata ma incompiuta, su rapporti coniugali intrappolanti, sul contrasto tra la vita sognata e quella vissuta. Una proiezione – tanta della sua narrativa è autobiografica – del conflitto mai sanato tra talento (percepito e coltivato) e mercato (mai del tutto compreso).