Lo scandalo della Storia di Elsa Morante – Mattoni Italiani 1/6
Uno dei casi editoriali più importanti del Novecento. Un’analisi
Con tutto ciò che hanno da offrire i romanzi novecenteschi sul periodo della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza, il più fulgido e lungimirante tra essi è La Storia, il cui titolo risulta ancora più paradossale se pensiamo che le macro dinamiche degli eventi storici sono appena accennate. Le vicende politiche sono rapidamente riassunte per far posto alla prospettiva di una famiglia romana formata da una vedova di origini ebraiche, Ida Mancuso, dai suoi figli, Nino e Useppe, e da una miriade di altri personaggi che hanno avuto ruoli più o meno insignificanti nel grande quadro storico del Novecento italiano. Poco male. Come lettrici e lettori, a servirci oggi non sono certo le ricostruzioni accurate, ma una riflessione più ampia sull’essenza della Storia nel suo incedere, e soprattutto nel suo replicarsi, come uno “scandalo che dura da diecimila anni”, come si legge nel sottotitolo della prima edizione.
A più di cinquant’anni dalla sua uscita, abbiamo ancora bisogno di leggere La Storia, un romanzo radicale scritto nel 1974 da una personalità disallineata, astorica e anarchica come quella di Elsa Morante. Perché siamo ancora alle prese con gli stessi interrogativi che portarono l’autrice a mettere sotto processo la realtà: perché esistono ancora le guerre; perché gli esseri umani continuano a minacciare l’annientamento reciproco attraverso delle armi spaventose; perché non riusciamo a spezzare la catena di sopraffazioni tra i popoli; quante sofferenze dobbiamo ancora vedere per interrompere questo ciclo; perché non impariamo mai nulla e la Storia continua a ripetersi?
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Viviamo in un’epoca dissacrante, di squallido scetticismo, in cui siamo inondati da notizie disarmanti – di minacce nucleari, catastrofe naturali, emergenze mediche e guerre – a cui reagiamo con ansia, impotenza e paura. Tutti questi sentimenti sono prevalenti ne La Storia. Anzi, sostengo che nessuno sia stato in grado di descrivere come Elsa Morante la sensazione di essere travolti dal potere politico così come il conseguente spaesamento e la paralisi intellettuale in cui si viene gettati subito dopo.
Grazie, però, al racconto di storie di personaggi comuni, trascinati in questa corrente ma mai totalmente abbandonati a essa, il romanzo ispira un risveglio critico, prodotto dalla compassione e dalla compartecipazione alle vicende narrate. Ecco che viene scongiurata quell’assuefazione e quell’indifferenza che ormai ispirano anche le immagini più atroci sui media oggi. Il racconto letterario è ancora in grado di spazzare via la gelida disumanizzazione del dominio visivo contemporaneo che mostra la corporeità e la violenza in modo sempre più estremo ma senza trasformare lo sguardo di chi assiste a questo spettacolo.
Inoltre, l’intonazione “gaia e ariosa”1 de La Storia, e quella morantiana in generale, con il suo carattere di levità che rifiuta il tono luttuoso, permette lo schiudersi di una visione sacrale e magica del mondo, in cui perdurano bellezza e innocenza, sebbene riservate ai puri di spirito, i ragazzini istintivamente ribelli e felici come i fratelli Nino e, in particolare, Useppe, custodi di un segreto gioioso che non potranno mai rivelare. Si veda, per esempio, il posto riservato alla musica e alla poesia nel romanzo, praticamente il solo linguaggio comprensibile in un’èra di brutalità insensate, l’unica via d’uscita dal labirinto del Potere, l’unica strada per arrivare alla verità ovvero che nella Storia ‘‘non c’è niente da capire’’, perché è “tutto uno scherzo”.
In questa dimensione, le strutture storiche e le istituzioni, per quanto assassine, sono condannabili ma evanescenti, poco significative rispetto all’eternità dei sentimenti e della potenza della vita, della Natura, dell’amore e della solidarietà tra esseri umani piccoli, di solito marginali e vessati, ma capaci di immensità spirituali. Non è quindi nell’orizzontalità del grande affresco storico che riscontriamo l’intensità e l’attualità di Morante, ma nella capacità di dare grande respiro a un bugigattolo (Dostoevskij, infatti, è direttamente omaggiato attraverso la figura dell’”idiota” Useppe), nei suoi ritratti, nei bozzetti, nel dettaglio fantastico che attanaglia la mente del lettore. Come disse Graziella Bernabò: “quella di Morante è una scrittura verticale che trascina verso sconvolgenti profondità”.
Sicuramente a essere trascinata fu l’immaginazione dei lettori che premiarono il romanzo di Morante con un successo clamoroso per l’epoca e, a dire il vero, le 800.000 copie vendute nel solo anno di pubblicazione, sono numeri cospicui anche per la contemporaneità. Per volontà di Morante, il romanzo fu pubblicato direttamente in brossura ovvero in un’edizione economica e abbordabile anche per i ceti non abbienti, con una tiratura molto alta (100.000 copie). L’intento di arrivare a tutti, creando un romanzo popolare al massimo grado, è già tutto nella dedica: “por el analfabeto a quien escribo”. Inoltre l’uscita, poco prima delle vacanze estive, venne accompagnata da una campagna pubblicitaria nazionale sulla stampa, un’operazione che non aveva molti precedenti e che diede i suoi frutti dal punto di vista commerciale.