La valle dell’Eden di John Steinbeck – Mattoni Americani 6/6
Uno dei romanzi più ambiziosi dell’autore simbolo della Grande Depressione, Premio Nobel per la Letteratura negli anni Sessanta
Questa è l’ultima tappa del percorso di lettura che abbiamo affrontato insieme quest’anno! Puoi recuperare in ogni momento le puntate precedenti dei Mattoni Americani, ascoltando o leggendo gli approfondimenti dedicati ad ognuno dei titoli letti insieme sul mio canale YouTube, su tutte le piattaforme di ascolto in formato podcast e negli speciali della newsletter, se sei un abbonato. Non perderti l’annuncio del 1° gennaio in cui sveleremo quali saranno i mattoni che leggeremo insieme l’anno prossimo!
La valle del Salinas è nella California settentrionale. È un canalone lungo e stretto tra due file di monti, e il fiume Salinas si snoda e si contorce lungo tutta la valle fino a sfociare nella baia di Monterrey. Ricordo i nomi che da bambino davo alle erbe e ai fiori nascosti. Ricordo dove si trova il rospo e a che ora si svegliano d'estate gli uccelli – e l'odore degli alberi e delle stagioni – che aspetto aveva la gente e come camminavano; ricordo anche il loro odore.
Nell’opera di un autore che ama così tanto la sua terra, tanto da dedicarle descrizioni impareggiabili, appare paradossale l’insistenza sul tema del movimento, della migrazione dei popoli, dell’irrequietezza. Eppure non è affatto contraddittorio.
I personaggi dei romanzi e dei racconti di John Steinbeck, uno degli autori più noti del XX secolo, camminano in lungo e in largo per gli Stati Uniti d’America, molti addirittura vengono dall’Europa, come la sua stessa famiglia, di origine irlandese; si muovono alla ricerca di fortuna, purezza, riscatto. Il loro pellegrinaggio, però, di solito si interrompe proprio in California, luogo mitico, designato al futuro, una regione che sembra concedere frutti maturi e che racchiude in sé una promessa per chiunque vi metta piede. Verrà mantenuta? L’opera di Steinbeck fa questo: mostra il paradiso e l’inferno, svela cosa c’è dietro il mito californiano e, al contempo, ci fa assaggiare il suo dolce nettare.
Steinbeck si fa cronista partecipe e sentimentale della terra in cui nacque nel 1902, a Salinas, cittadina rurale nella contea di Monterey. Proprio la vita contadina fu il tema delle sue prime opere – I pascoli del cielo, 1932, Al Dio sconosciuto, 1933 – composte negli anni Trenta, dopo aver abbandonato Stanford e aver tentato la carriera giornalistica a New York. Ma è di nuovo il richiamo della California a segnare il suo destino personale e professionale. Infatti è qui che ritorna e sviluppa un vivo interesse per la working class, lavorando a stretto contatto con migranti e contadini nei ranch, interessandosi della condizione dei lavoratori stagionali (si veda, per esempio, La battaglia del 1936) e, in seguito, affermandosi come cantore dei grandi temi sociali della Grande Depressione, mettendo al centro delle sue storie le fasce di popolazione ignorate ed emarginate dalla literary fiction. Nei romanzi successivi come Pian de la Tortilla (1935) e soprattutto Uomini e Topi (1937) – che gli concederanno un già solido favore popolare, destinato a crescere da qui in avanti – vengono ulteriormente approfonditi le tematiche cruciali della narrativa di Steinbeck: le ingiustizie sociali, il razzismo, la ricerca di un lavoro stabile e di una vita sicura in un ambiente di sfruttamento e la rapacità del mondo moderno.
Il culmine di questo afflato umanitario giunge nel 1939 con la pubblicazione del suo capolavoro: Furore, (in originale, The Grapes of Wrath), premiato col National Book Award e l’anno successivo col Premio Pulitzer. Il riconoscimento più grande viene però dal pubblico: il romanzo vende complessivamente 4 milioni e mezzo di copie tra il 1939 e il 1940. Il grande merito del libro, ancora una volta, è quello di aver esposto al mondo intero un dramma sociale, fino a quel momento invisibile: il movimento migratorio interno che portò in California migliaia e migliaia di famiglie impoverite dalle Dust bowl (le terribili tempeste di vento che afflissero il Midwest in quegli anni e che portarono via lo strato di humus coltivabile dai terreni, rendendo sterili i campi). Particolarmente segnato fu lo Stato dell’Oklahoma, che creò appunto gli Okies, termine dispregiativo che stava a indicare i nuovi poveri, bianchi e protestanti, espropriati dalle banche delle loro fattorie; si trattava di una massa imponente di persone che, in realtà, divenne soltanto l’ultimo gruppo a essere sfruttato come manodopera agricola a basso costo dai proprietari terrieri californiani, interessati a spremere più profitto possibile da una crisi sociale con pochi precedenti. Prima di loro infatti c’erano stati nativi americani, cinesi, giapponesi, messicani, indiani, armeni e filippini.
Tale materiale narrativo – che Steinbeck aveva già documentato come cronista del San Francisco News – diventa un’epopea familiare, raccontata attraverso l’uso di metafore bibliche ma con uno stile sempre accessibile e uno sguardo empatico che illumina la lotta di uomini e donne comuni e la forza spirituale del popolo americano1.
The big one: la pubblicazione del romanzo più ambizioso di Steinbeck
Tredici anni dopo la pubblicazione di Furore, nel 1952, con il chiaro intento di superare quello che a detta di tutti era il suo magnum opus, arriva La Valle dell’Eden, dall’autore stesso definito “the big one”.
I riferimenti biblici sono ugualmente presenti ma l’affresco sociale, per come è stato dipinto in Furore, così come l’urgenza della denuncia, qui sono assenti. Per capire meglio l’intento del romanzo, basta leggere la dedica nella quale Steinbeck stesso dichiara che il libro sarà l’eredità filosofica e spirituale che vuole lasciare ai suoi due figli.
All’editor e amico Pascal Covici, scriverà:
Ecco, questa è la scatola. C’è dentro quasi tutto quello che ho, eppure non è piena. Ci sono dentro dolore ed eccitazione, sentimenti buoni e cattivi, pensieri cattivi e pensieri buoni – il piacere di disegnare e un po’ di disperazione e l’indescrivibile gioia della creazione.
Con questo libro Steinbeck vuole descrivere la natura umana nella sua universalità, ridurre la vita alla sua essenzialità, arrivare al cuore del dilemma delle nostre esistenze, al di là del tempo contingente e della Storia.
Io credo che nel mondo ci sia una storia, e una storia sola, che ci ha spaventato e ispirato (...), una storia fonte di infinita riflessione e meraviglia. Gli uomini sono presi – nelle loro vite, nei loro pensieri, nei loro appetiti e ambizioni, avarizie e crudeltà, e persino nei loro impulsi di bontà e generosità – in una rete di bene e di male. lo credo sia questa la sola storia che abbiamo e che si ripete a tutti i livelli del sentimento e dell'intelligenza.
Al centro de La Valle dell’Eden c’è il tema del bene e del male e la valle di Salinas ne sarà lo sfondo, tutt’altro che incontaminato. Già nel capitolo di apertura possiamo notare che il paesaggio diventa simbolico: la valle ricorda per certi aspetti il giardino dell’Eden ma c’è una netta separazione tra gli oscuri Monti Santa Lucia, che si trovano a ovest e i luminosi Monti Gabilan, a est, che segna anche la divisione tra una zona scarsamente illuminata, con terra arida e difficile da coltivare, da un lato, e dall’altro, terreni fertili e rigogliosi. Tra queste due catene montuose, e simbolicamente tra bene e male, si stabiliscono le famiglie Hamilton e Trask, protagoniste del romanzo. È questo lo scacchiere romanzesco de La Valle dell’Eden: due linee di sangue, due poli opposti di moralità, una sola scelta.
Vizio e virtù sono stati trama e ordito della nostra prima presa di coscienza, e saranno il tessuto dell'ultima, e questo malgrado tutti i cambiamenti che potremo imporre a campi, fiumi e montagne, all'economia e a usi e costumi.