La “generazione perduta” di scrittori a Parigi nei ruggenti anni Venti – Mattoni Americani Extra
Hemingway, Stein, Fitzgerald e gli altri: chi erano gli scrittori americani espatriati in Francia?
Negli anni Venti del Novecento, Parigi diventò l’epicentro letterario del mondo, un magnete per gli scrittori stranieri che qui, in un tempo relativamente breve, composero capolavori come Il grande Gatsby (1925), Fiesta (1926), Autobiografia di Alice Toklas (pubblicato poco dopo, nel 1933) e si lasciarono ispirare dall’influenza degli altri movimenti artistici e dalle avanguardie.
Proprio a Parigi, infatti, si assistette a una peculiare concentrazione di intellettuali, filosofi, pittori, artisti e mecenati che contribuirono a rendere la città un crocevia internazionale, una sorta di trappola magica in cui si ritrovarono le personalità di maggiore spicco dell’epoca, un luogo in cui il tempo parve addensarsi: una manciata di anni bastarono per tracciare le coordinate culturali del primo Novecento.
Chissà se chi bazzicò la Rive Gauche all’epoca abbia mai avuto la percezione di stare vivendo un momento topico della Storia e di stare creando un immaginario iconico. È difficile capire per chi abita l’èra frammentata della post-post modernità – dove la cultura è parcellizzata in nicchie sempre più claustrofobiche e distanti tra loro – come ci sia stato un tempo in cui si sarebbero potuti incontrare nella stessa città, nello stesso edificio, addirittura nella stessa stanza, Picasso, Stein, E.E. Cummings, T.S. Eliot, Fitzgerald, Hemingway e Dunjia Barnes.
Immaginandoci la scena, potrebbe coglierci lo stesso stupore del protagonista di Midnight in Paris, un meravigliato Owen Wilson che dal presente, in un funambolico viaggio nel tempo, si ritrova a passeggiare in una Parigi perduta, gremita di celebrità, attraversata da correnti di effervescenza creativa, da ondate di cambiamento e assalti al futuro. Nonostante il film di Allen sia una nostalgica iperbole1, non si è discostato poi così tanto dalla realtà nel ricostruire quel clima di ribellione e possibilità che si estendeva a tutta le arti.
Dopo la devastazione della Prima guerra mondiale, ma già da prima con l’avvento della società di massa e gli sconquassamenti sociali e tecnologici del primo Novecento, ovunque si percepiva l’esigenza di dare una nuova forma al presente, affrancandosi dal passato e inventando linguaggi completamente diversi. I movimenti di rottura si diffusero a livello internazionale con una velocità inedita – grazie ai moderni mezzi di comunicazione – e investirono l’Arte nella sua totalità: dalle arti visive a quelle performative, dalla letteratura alla musica.
Le Avanguardie – Espressionismo, Dadaismo, Futurismo, Surrealismo – nacquero per provocare, abbracciando concezioni in aperto contrasto con la tradizione: il rifiuto del culto del Bello (come nel Cubismo), la centralità dell’inconscio (nell’Espressionismo), la celebrazione della tecnica e della velocità (come nel Futurismo).
La maggior parte di questi movimenti fu europeo e all’epoca Parigi era la capitale d’Europa, quindi, non stupisce che la Ville Lumière tra le due guerre attirò artisti da tutto il mondo per condividere e sperimentare quell’incredibile fucina di idee e forme nuove che personalità come Picasso, Modigliani e Dalí stavano contribuendo a modellare.
Anche in ambito letterario, la città ombelico delle avanguardie nutrì tutta una generazione di poeti e artisti francesi destinati a diventare i simboli di un’èra: Apollinaire, Proust, Breton, Gide, Colette, Valéry e molti altri, con le loro opere e le loro performance diedero slancio all’anticonformismo, rifuggendo da ogni luogo comune tanto da attirare a sé accuse di cialtroneria e perversione2.
La vita a Parigi era caratterizzata da una certa emancipazione dai modelli morali ed educativi tradizionali, percepiti come retrogradi, dalla liberazione sessuale e, infine, dalla commistione indissolubile tra arte e vita che inevitabilmente portò alla necessità di trovare un nuovo modo di intendere l’opera artistica nell’epoca della società di massa e della sua “riproducibilità tecnica”, anche alla luce dell’angoscia per un trionfo delle macchine e dei nuovi devastanti conflitti bellici.
Queste tensioni si possono leggere nel romanzo francese de I falsari (1925) di André Gide: “Ciò che sfugge alla logica è quanto v’è di più prezioso in noi stessi”. In aperto contrasto con la razionalità efficientista e spietata della massificazione che vedeva gli esseri umani come meccanismi di una grande dispositivo sociale, gli artisti riportarono al centro la soggettività, l’irrazionalità e la complessa irriducibilità dei sentimenti umani, benché il concetto stesso di identità individuale fosse esploso e l’arte dovesse in qualche modo esistere autonomamente e non avere più come unica finalità la rappresentazione e la mimesi del reale.
Per agevolare la navigazione, ho creato l’indice dell’approfondimento:
1.0 I ruggenti anni Venti in America e in Europa tra euforia e repressione
2.0 La generazione perduta di americani a Parigi
3.0 Parigi è una festa mobile
4.0 La Shakespeare & Co. di Sylvia Beach
5.0 Il mito di Ernest Hemingway
6.0 L’ultimo (e il più grande) dei romantici: Francis Scott Fitzgerald
7.0 La poeta “cubista”: Gertrude Stein
1.0 I ruggenti anni Venti in America e in Europa tra euforia e repressione
Tra tutti gli espatriati che subirono il richiamo di Parigi negli anni Venti, quelli che rimangono ancora oggi scolpiti nel nostro immaginario sono gli scrittori americani e la cosiddetta “lost generation”, una definizione coniata da Gertrude Stein ma resa popolare da Ernest Hemingway che la inserì come epigrafe di Fiesta (1926), romanzo autobiografico scritto e pubblicato proprio a Parigi, ambientato tra Francia e Spagna.
Si dice che “you are all a lost generation” sia un’esclamazione del proprietario di un’officina rivolta a un meccanico che non riusciva a riparare la Ford T della scrittrice americana e poi riportata al suo circolo di amici, tra cui Hemingway. Nel riportare l’aneddoto, Stein aggiunse: “Questo è ciò che tutti sono… tutti voi, giovani che avete prestato servizio nella guerra. Voi siete una generazione perduta”.
Sebbene oggi con l’espressione “lost generation” ci si rifaccia esplicitamente al gruppo di scrittori americani che soggiornarono a Parigi tra le due guerre – oltre a Hemingway e Stein, ricordiamo anche F.S. Fitzgerald, John Steinbeck, T.S. Eliot, John Dos Passos, Isadora Duncan, Henry Miller, Ezra Pound, Dunja Barnes e Sherwood Anderson – quest’etichetta in origine indicava tutti coloro che avevano compiuto la maggiore età durante la Prima guerra mondiale, un evento traumatico che poneva fine a un lunghissimo periodo di pace. L’impatto devastante sulla psiche dei giovani uomini mandati al fronte, e il conseguente senso di profonda disillusione nei confronti della Patria, fu descritto perfettamente in uno dei primi romanzi pacifisti della modernità: Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, altro autore che si rifugiò a Parigi (più tardi, negli anni Trenta), in esilio dal regime nazista.