Inside books di Ilenia Zodiaco

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Natalia Ginzburg, una ragazza “affollata di pasticci” – Mattoni Italiani Extra
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Natalia Ginzburg, una ragazza “affollata di pasticci” – Mattoni Italiani Extra

Un ritratto umano e letterario di una delle personalità più importanti del Novecento italiano

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Ilenia
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May 30, 2025
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Sembra un paradosso che Natalia Ginzburg la quale nei suoi libri ha tanto parlato di sé, non ci abbia mai raccontato niente di sé stessa. Che cosa sappiamo di lei? Tutto e nulla.

Cesare Garboli

Natalia Ginzburg (1916–1991) è stata una delle più importanti intellettuali e scrittrici italiane del Novecento, nota per la sua sensibilità nel descrivere le fragilità umane e soprattutto le dinamiche familiari. Proprio la famiglia è al centro di tutte le sue opere, a partire dal racconto della sua, reso attraverso l’originale forma di autobiografia romanzata di Lessico famigliare (il libro che le valse il Premio Strega nel 1963).

Il profilo di Ginzburg, tuttavia, è molto lontano dalle forme di autofiction ombelicale della contemporaneità. Nonostante l’aderenza quasi pedissequa al racconto del reale e ai “fatti veri” della sua vita, Ginzburg adottò un riserbo sobrio, essenziale, un distacco molto sabaudo, potremmo dire. Nata a Palermo, infatti, l’autrice si trasferì ben presto in Piemonte per le esigenze lavorative del padre, Giuseppe Levi, scienziato triestino di origini ebraiche e di fede socialista, nonché docente universitario di grande prestigio. Proprio l’insediamento sulla cattedra di anatomia di Torino gli permetterà di formare ben tre premi Nobel (Luria, Dulbecco e Levi-Montalcini). Qui insegnerà fino al 1938, anno in cui verrà allontanato per effetto delle leggi razziali. Anche la madre di Ginzburg, Lidia Tanzi, all’epoca dell’incontro con Levi studentessa di medicina, proveniva da ambienti colti, essendo figlia di Carlo Tanzi, avvocato socialista, amico di Turati. Natalia, quindi, cresce in un ambiente profondamente stimolante, vivace e impegnato, ma soprattutto antifascista.

Anche il suo primo marito, Leone Ginzburg (1909, Odessa), brillante e carismatico intellettuale e profondo conoscitore della letteratura russa, fece della lotta contro il regime l’impresa della sua vita, contribuendo persino alla nascita della casa editrice torinese in diretta e totale opposizione al Fascismo, Einaudi, insieme ad altri studenti del Liceo Massimo D’Azeglio (Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Cesare Pavese, Carlo Levi, Massimo Mila, Luigi Salvatorelli, oltre ovviamente a Giulio Einaudi). Proprio in seguito all’incarceramento e alle torture subite per mano dei fascisti, Leone morì nel carcere di Regina Coeli nel 1944, lasciando Natalia vedova e con tre figli.

L’autrice riuscì comunque a mantenere la promessa che il marito le fece nella sua ultima lettera: “La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri”.

E così fece Natalia Ginzburg, che mantenne sempre il cognome del marito scomparso, anche quando si risposò in seconde nozze con l’anglista Gabriele Baldini. Oltre a coltivare la sua carriera letteraria, Ginzburg si dedicò per tutta la sua vita alla cultura, lavorando come traduttrice, redattrice e consulente per l’Einaudi e aiutando talenti come quello di Elsa Morante a emergere.

Oggi il profilo di Ginzburg è uno dei più eminenti nel panorama della Letteratura del Novecento italiano, ancora molto letta e studiata. Anzi, forse ancora più che in passato, un’evidenza corroborata dalle istanze sociali e le necessità contemporanee di recupero e valorizzazione delle voci femminili della nostra storia. Bizzarro, però, che proprio quelle autrici oggi “recuperate” non avrebbero gradito così tanto avere un riflettore puntato contro. Per esempio, Alba De Cespedes (1911-1997), che pure anticipò tanto delle filosofie femministe, detestava l’etichetta di femminista. Così Natalia Ginzburg rifiutava istintivamente lo schematismo ideologico in cui si configurava il dibattito in quegli anni e, come Elsa Morante (1912-1985), si faceva chiamare “scrittore” anziché scrittrice.

Interrogata da Sandra Petrignani, autrice della biografia La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg, Dacia Maraini osserva che personalità come la Morante e la Ginzburg “appartenevano a una generazione precedente al femminismo che per loro era un’ideologia estranea e fastidiosa. Lei e Natalia si consideravano ‘scrittori’. Ma si può capire perché. Ai loro tempi, la parola scrittrice era sinonimo di sentimentalismo, ignoranza, manierismo, emotività, sdolcinatezza”.

Lo si evince anche dalla genesi di Lessico famigliare, l’opera più importante dell’autrice, che in un primo momento Ginzburg è restìa a comporre. L’idea di raccontare la storia della sua famiglia – come confessa nell’introduzione a Cinque romanzi brevi – le infonde terrore, avendo la certezza di risultare “attaccaticcia e sentimentale”, un pregiudizio sul genere ma anche sulla scrittura femminile.

Intervistata da Oriana Fallaci nel 1963 per il settimanale L’Europeo, Ginzburg dichiara “avevo orrore che si capisse che ero una donna dalle cose che scrivevo”. L’autrice crede che quando si scrive bisogna sforzarsi di usare distacco e ironia, adottando quindi uno stile piuttosto secco. La Fallaci nota come nel corso dell’intervista la Ginzburg abbia frequenti momenti di esitazione e mostri un eccesso di modestia. Ne Le piccole virtù Ginzburg confesserà, infatti, che fin da piccola si è dovuta adattare a un eloquio, evidentemente poi trasformatosi in uno stile di scrittura, molto stringato, anche per l’abitudine dei suoi fratelli di interromperla:

“Del resto finora mi è successo sempre di scrivere in fretta e delle cose piuttosto brevi: e a un certo punto m’è sembrato anche di capire perché. Perché ho dei fratelli molto maggiori di me e quando ero piccola, se parlavo a tavola mi dicevano sempre di tacere. Così mi ero abituata a dir sempre le cose in fretta in fretta, a precipizio e col minor numero possibile di parole, sempre con la paura che gli altri riprendessero a parlare tra loro e smettessero di darmi ascolto”.

Il bisogno di spazio e autodeterminazione

Lo sentiamo ancora oggi questo bisogno di legittimazione e di farsi ascoltare per le scrittrici femminili, non era niente di nuovo nemmeno all’epoca, purtroppo. Il bisogno di ammettere la propria ignoranza a priori, questo eccesso di modestia, fortunatamente non le ha mai impedito di esprimere le sue opinioni liberamente: è sempre Petrignani a chiamarla infatti “la corsara”, che non è un richiamo a Pasolini, ma il soprannome che le aveva dato anche Cesare Garboli (suo critico e amico). Le sue opinioni decise e anticonformiste convivevano con quell’etichetta data dal padre e dai familiari, “impiastro per sempre”, una ragazza “affollata di pasticci”.

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