L’effetto balena bianca – Inside Books #3
L’influenza di Moby Dick sulla letteratura dimostra il potere delle storie di nutrire l'immaginario simbolico della collettività
Amo tutti gli uomini che si tuffano. Tutti i pesci son buoni a nuotare vicino alla superficie, ma ci vuole una grande balena per andar giù per cinque miglia
Moby Dick, Herman Melville
Più mi inabisso nella lettura di Moby Dick più capisco che non ci sarà mai nessun tonfo, non toccherò mai il fondo della voragine in cui mi ha fatto precipitare Melville. Ogni riga del suo testo mi sembra rimandi ad altri cento libri. È uno sforzo titanico compendiare le ispirazioni letterarie del romanzo: a partire dai richiami biblici di Giobbe e Giona, passando per le influenze shakespeariane del Re Lear e soprattutto lo stampo di Milton e il suo Paradiso Perduto, fino al Faustus di Marlowe e Goethe, il perno su cui si è formata l’ambizione perversa e diabolica del capitano Achab.
Ogni libro è in fondo un racconto di fantasmi, al cui interno abitano le ombre degli scrittori e delle scrittrici che sono venuti prima. La letteratura è un gigantesco condominio in cui i vicini si disturbano a vicenda, un sistema di opere letterarie in relazioni reciproche. La parola letteraria si pone sempre in dialogo con i testi che l’hanno preceduta, lo dice la studiosa Marina Polacco in un saggio piccino, meno di 100 pagine, L’intertestualità.
Ogni scrittore deve fare i conti con un canone e questo può generare quella che il critico letterario Harold Bloom chiamava “l’angoscia dell’influenza”. Secondo la sua teoria, i giovani scrittori si confrontano – inevitabilmente in modo agonistico – con i grandi autori del passato, subendone l’ascendente ma al contempo discostandosene. Da questo cortocircuito scaturiscono opere originali in cui si rintraccia l’impronta immortale della letteratura che le ha precedute.
È uno dei motivi per cui leggere i classici è per me un’impresa inesauribile e infaticabile. Sia che si guardi al passato, sia che si guardi al presente, leggendo i mattoni si intravede sempre la trama sottile, quasi invisibile, della ragnatela che collega tutte le opere letterarie, nutrendo di simboli e archetipi l’immaginario comune. È una goduria rintracciarne i collegamenti come degli archeologi, capire come è cambiata la sensibilità verso certi temi, come si è evoluta e come si è tramandata una metafora di generazione in generazione.
Da quando abbiamo iniziato a leggere Moby Dick, inizio a vedere suggestioni e influenze della balena bianca dappertutto. La vedo citare di continuo. Anche nei luoghi più inaspettati, tipo su Pedro Pascal.
Ascoltando una canzone che è nella mia playlist quotidiana da sempre (Where you end di Moby), ho fatto caso per la prima volta al nome dell’autore, scoprendo in questo modo che si chiama così perché è il pronipote di Melville!
Ho ritrovato, durante le vacanze di Natale, nella libreria siciliana della mia infanzia (vivo a Milano da quasi 10 anni, ormai), un libro prezioso – e fuori catalogo, purtroppo – che intreccia la storia di come è stato scritto Moby Dick con una ricostruzione dell’industria baleniera dell’Ottocento e uno studio storico-naturalistico e filologico sulle balene e su tutte le metafore di cui l’essere umano le ha ammantate. S’intitola Leviatano di Philip Hoare.
Mi è tornato anche in mente un libro letto lo scorso mese: una raccolta di testi di nonfiction di Leslie Jamison, Lascialo gridare, lascialo bruciare, in cui si racconta la storia vera e incredibile di una balena che canta a una frequenza che nessuno dei suoi simili può udire, l’animale più solo del mondo. Ovviamente c’è un riferimento a Melville.
La caccia a una balena sfuggente è l'intreccio più famoso nella storia della letteratura americana. Hai visto la balena bianca? Ma per quanto Moby Dick riguardi la ricerca di un animale o della vendetta, riguarda anche la ricerca della metafora, il tentativo di capire ciò che non può essere compreso. Ismaele chiama il candore della balena "una muta vacuità, piena di significato". Pieno di molti significati, in realtà: la divinità e la sua assenza, il potere primordiale e il suo rifiuto, la possibilità di vendetta e quella di annientamento.
Da questi spunti involontari è partita un’intenzionale ricerca ossessiva – e forse folle quanto quella del capitano Achab – per rintracciare una piccolissima parte delle influenze letterarie che il capolavoro di Melville ha generato, quello che ho chiamato l’effetto balena bianca. Il risultato è il numero di questa newsletter.
Buon viaggio, sappiate che non c’è un inizio e non ci sarà mai una conclusione, perché i classici non smetteranno mai di parlarci e di far germogliare fiori che altri coglieranno
Il simbolo del simbolo
Secondo D.H. Lawrence – un autore inglese raffinatissimo che ha scritto un libello sulle origini della letteratura statunitense – Moby Dick, l’enorme balena bianca che incute un inesprimibile terrore, è certamente un simbolo. Ma di che cosa? Sostiene che nemmeno Melville lo sapesse esattamente. “È questo il bello”.
Questo è un grande libro. All’inizio si è scoraggiati dallo stile. Sembra giornalistico. Suona artificioso. […] E un po’ sentenzioso Melville lo è davvero: guardingo, impacciato […]. Nessuno può essere più rozzo, più goffo e sentenzioso nel suo cattivo gusto di Herman Melville, anche in un grande libro come Moby Dick. Predica e sproloquia perché non è sicuro di sé. […] O Dio, il sussiegoso dottorone quando blatera, blatera, blatera! Ma era un artista grande e profondo. Era un vero americano, sempre consapevole di avere un pubblico di fronte a sé. Ma quando smette di essere americano, quando si dimentica il pubblico e ci dà semplicemente il suo modo di vedere il mondo, è meraviglioso, e il suo libro impone all’anima una quiete, un sacro timore.
Partiamo da qui. La balena è il simbolo del simbolo. Del bisogno, della necessità dell’essere umano di dare significati al tangibile. Di dare sostanza aggiuntiva – sebbene invisibile – agli oggetti, alle persone, a tutti i referenti del mondo. Ho voluto interpellare direttamente l’autrice Leslie Jamison che, nel suo saggio già citato, si rifà non solo a Moby Dick ma anche a Joan Didion che in The White Album rivela: “noi ci raccontiamo storie per vivere”.
Ilenia:
Della tua storia sulla balena più solitaria del mondo mi ha colpito che al centro delle testimonianze non ci fosse l’indagine sulla natura stessa della balena – che rimane una curiosità scientifica – quanto sul perché le persone si affezionassero a questo simbolo, della loro necessità di creare una narrazione e quindi di proiettare sull’animale una parabola di coraggio, di autosufficienza, di forza e riscatto. Pensi che 52Blue – questo il nome della balena – avrebbe avuto la stessa risonanza se nell’immaginario collettivo la balena non fosse già un simbolo così potente, anche in relazione a Moby Dick? Sicuramente non tutti hanno letto il libro di Melville, che si poggia già su un tessuto biblico ben più antico, eppure la balena bianca è riconosciuta da tutti. Il leviatano è da sempre un totem. È forse questo il potere delle storie, quello di essere conosciute anche da chi non le ha mai lette e approfondite fino in fondo? La capacità di entrare in qualche modo nell’inconscio collettivo anche per osmosi? In che percentuale questo potere risulta terrificante e magnifico?
Leslie Jamison:
Hai assolutamente ragione quando dici che l’interesse della mia ricerca fin dall’inizio si è concentrato sulla balena come simbolo, sul significato che le persone le hanno attribuito, piuttosto che sul trovare una risposta definitiva (per altro impossibile) sul suo isolamento e sul suo canto solitario. E penso che ci sia un collegamento tra l’inconoscibilità della balena – che resta un mistero – e la sua perseveranza e potenza come simbolo; esattamente come in Moby Dick, parte della forza della Balena Bianca risiede nella sua opacità, nel suo essere un’incognita, un simbolo su cui si possono proiettare molteplici significati.
Penso che 52Blue abbia sicuramente dei livelli di lettura che non risuonerebbero allo stesso modo senza il grande simbolo americano di Moby Dick. Tuttavia, penso anche che, senza il riferimento a quel romanzo classico, nelle balene ci sia qualcosa di intrinsecamente affascinante: la loro IMMENSA stazza, tanto per cominciare. Suscita domande come: “Cosa sta avvenendo lì dentro?”; “Cosa succede all’interno di un cuore grande quanto un furgoncino?”. E il fatto che siano così comunicative ci rivela il loro spirito, il loro desiderio di dire qualcosa, di far parte di una comunità; e il fatto che la loro attitudine a comunicare sia parte di ciò che ci attrae significa anche che, quando questa propensione comunicativa si interrompe, ci sentiamo connessi a quel fallimento, o a quello che possiamo interpretare come un desiderio inappagato di comunicare.
Penso davvero che le balene abbiano una forza e una potenza singolari che trovano risonanza anche in coloro che non hanno mai letto Moby Dick. Forza e potenza sono entrate nella coscienza culturale attraverso la Bibbia e l’ampia diffusione di quel classico americano nell’immaginario popolare, ma hanno anche a che fare con la magnificenza e le dimensioni delle balene come creature, e forse con il modo in cui le caratteristiche che ho appena descritto – le loro dimensioni e il loro canto – ci spingono in due direzioni leggermente diverse: le loro dimensioni le rendono temibili e fondamentalmente aliene, di un’altra scala rispetto a noi; mentre il loro canto le rende quasi più conoscibili e più simili a noi. In questo modo le percepiamo vicine e lontane allo stesso tempo. Penso che ci sia anche qualcosa di suggestivo nel fatto che vivono in un elemento completamente diverso da noi, come l’acqua, un paesaggio strano e infinito che non possiamo conoscere, ma hanno anche bisogno di ciò di cui abbiamo bisogno noi per sopravvivere: l’aria.
Non di sole balene si vive: il capitano Achab
Non c’è solo la balena in Moby Dick, però. La controparte è l’immenso capitano Achab. La lettura più affascinante del personaggio l’ho ritrovata in una grande autrice del Novecento: Anna Maria Ortese che fu anche una “uncommon reader”, come si legge nella postfazione a Da Moby Dick all’orsa bianca, volume Adelphi che raccoglie i tanti scritti dedicati alla passione per la lettura della scrittrice, in cui si affastellano i pareri di tanti libri letti nel corso della sua vita. Una vita schiva, lontana dalle correnti letterarie in voga al suo tempo. Proprio come Melville, anche lei aveva una “vocazione all’isolamento”, come la definisce la critica Angela Bubba. Anche Ortese, come lo scrittore americano, ricevette poco riconoscimento per la sua opera e fu riscoperta tardivamente. Scrisse in esilio, per se stessa e per il futuro. Affascinata dai nativi americani e dal regno animale, auspicava un ritorno della civiltà alla natura, al sacro, a sfavore del consumismo sfrenato indotto dal denaro.
Nella sua personale poetica, è facile capire come abbia interpretato Moby Dick, animale che assurge a metafora del divino, della purezza, ripudiato e bracconato dall’uomo moderno – rappresentato dal capitano Achab – che non tollera il mistero, rifiuta la divinità e la fede. Non vuole credere, vuole toccare con mano, vuole guardare nell’abisso, anche se sa che sta commettendo un peccato imperdonabile e che probabilmente gli costerà la vita.
Il suo vero nome, il vero nome di Achab è: Uomo-Senza-Natura, cioè senza pace, uomo muto, uomo atono, creditore del nulla, perduto nei sistemi senza orizzonte dell’utile, uomo pieno di rumore, e insieme taciturno, ignoto alla Parola, come un insetto, una gigantesca formica. Uomo-del-Futuro solo in apparenza: in sostanza, Anti-Uomo, Anti-Universo, Anti-Dio. […] Quante cose sa l’uomo d’oggi! E come – quanto più sa – più è paralitico! Il suo odio per i segreti non ha limiti; perciò egli non produce più segreti, solo incomprensioni.
A ribadire la natura titanica di Achab è intervenuto anche uno dei massimi anglisti italiani ovvero Agostino Lombardo. Nel saggio Il grande romanzo americano, che è in realtà quasi un manuale accademico, scrive:
Il peccato di Ahab è quello di Adamo ed Eva, la sua colpa quella di voler mangiare il frutto della conoscenza; è il peccato dell’Ulisse dantesco, di Faust e di tanti personaggi di Hawthorne […]. Melville non può condannare Ahab perché Ahab è appunto Melville, e non certo nel senso banale per cui ogni scrittore è il proprio personaggio. Ahab impersona l’umano impulso alla conoscenza – anche alla conoscenza del male; il rifiuto di non indagare nel mistero, il rifiuto di subordinare la ragione alla fede; l’anelito alla ricerca di una verità che non ci è concessa e che pure dobbiamo ricercare.
Influenze e cortocircuiti letterari
L’effetto balena bianca va anche a ritroso. Da quale passato trasse ispirazione Melville per il suo capolavoro? Ne I demoni e la pasta sfoglia di Michele Mari – un altro tomo da uncommon reader in cui l’autore racconta i libri straordinari che lo hanno formato – si ravvisa una comune origine con il Gordon Pym di Edgar Allan Poe.
Partito nel 1829 alla volta dell’Antartide per dimostrare una teoria secondo cui la terra era cava e vi si poteva penetrare appunto dal Polo Sud, un avventuriero chiamato Jeremiah Reynolds tornò indietro a mani vuote, spacciando storie inverosimili pur di rientrare nelle spese del viaggio. Una di queste storie riguardava l’abisso bianco con cui si conclude il Gordon Pym, un’altra una straordinaria balena bianca avvistata al largo delle coste del Cile, e chiamata dai marinai Mocha Dick dal nome del più vicino promontorio.
Oltre a essere colpito da questo episodio, sicuramente Melville fu altresì impressionato dal naufragio della baleniera Essex, affondata da un capodoglio nel 1820. La vicenda ebbe grande risonanza all’epoca, anche per via dei suoi aspetti macabri – l’equipaggio sopravvissuto fece ricorso al cannibalismo – ed è stato raccontato nel film, mediocre ma d’atmosfera, In The Heart of the sea di Ron Howard (2015), a sua volta ispirato al romanzo omonimo di Nathaniel Philbrick del 2000. Passano gli anni, ma la fascinazione per la balena rimane intatta.
Bros over whales
Non si può poi non citare uno dei punti di riferimento di Melville – non tanto per i temi quanto per l’esempio paradigmatico di scrittore e uomo – ovvero Nathaniel Hawthorne, a cui è persino dedicato il romanzo: “in segno della mia ammirazione per il suo genio”. Non esagero se dico che l’amicizia tra i due scrittori americani offre materiale succulento per un’accesissima storia bromance. In particolare, era Melville a nutrire un’ammirazione che sfiorava l’idolatria riservata ai santi, riservandogli frasi di pura venerazione amorosa: “Credo che lascerò il mondo con maggior soddisfazione per aver conosciuto voi. Conoscere voi mi persuade più della Bibbia della nostra immortalità”.
Qui un bell’articolo di Pietro Citati sul loro sodalizio artistico e umano. Oppure il saggio di Barbara Lanati – Frammenti di un sogno. Hawthorne, Melville e il romanzo americano – da reperire usato o da cercare in biblioteca. Perché non approfondire direttamente con l’epistolario curato dal docente Nori, con testo inglese a fronte? Contiene, però, solo le lettere di Melville a Hawthorne e non viceversa, perché il nostro Herman probabilmente bruciò quelle di Nathaniel, in un momento di amarezza. Ve l’ho già detto che questa è una delle bromance più infiammate della storia della letteratura, no?
Di queste lettere colpisce quanto l’astro di una personalità possa consigliare e influenzare un’altra e quanto sia fondamentale per uno scrittore – ma anche per ogni persona – rispecchiarsi in un’altra natura, diversa dalla nostra. E non potevano essere più diversi: Melville, estraneo al mondo letterario dominante, Hawthorne uno dei suoi rappresentati più alti. Da un lato, una personalità impetuosa, giovane e furiosa come quella di Melville, dall’altro la saggezza placida e il portamento flemmatico (per quanto dall’animo tormentato e cupo) di Hawthorne.
Come scrisse nei suoi diari Sophia Peabody, moglie di Nathaniel: “onde tumultuose di pensiero” si schiantavano “contro i grandi silenzi geniali e ricettivi”. In riferimento al suo capolavoro Melville scrisse a Hawthorne “ho scritto un libro malvagio, e mi sento immacolato come l’agnello”, mentre lo scrittore di Salem definì Moby Dick “un'opera dalla grandezza simile a quella di Omero”.
Un elenco random di altri titoli, fatti, cose e città ispirati da Moby Dick:
Nella saga di romanzi Una serie di sfortunati eventi di Lemony Snicket ci sono tantissimi riferimenti a Moby Dick, a partire dal sottomarino Queequeg fino all’Ahab Memorial Hospital e una delle frasi più celebri dell’ultimo libro “Call me Ish” che si rifà all’incipit.
Lo scrittore Ray Bradbury, chiamato a scrivere la sceneggiatura del film del 1956 tratto da Moby Dick e girato da John Huston, pare che abbia detto di non riuscire a leggere quella “dannata cosa”.
Nel romanzo La terra sotto i suoi piedi, Salman Rushdie fa riferimenti a Moby Dick attraverso il personaggio di Ormus Cama, un musicista indiano che è ossessionato dalla balena.
Il castello nella foresta di Norman Mailer mescola la storia della famiglia di Hitler con motivi e simboli tratti da Moby Dick.
In Cloud Atlas, David Mitchell imbastisce una trama ambientata su una nave durante il XIX secolo, basata su una ricerca ossessiva. Vi ricorda qualcosa?
E anche oggi vi ho sepolto di libri, alla prossima puntata di Inside Books.
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Ciao Ilenia, buona domenica. Mi associo ai commenti entusiasti sul tuo Inside books e in particolare sul diario di bordo della lettura di MD, che ho quasi finito. Ho letto e riletto questa puntata della tua newsletter per catturare il massimo delle tue osservazioni, sei bravissima, il tuo amore per la letteratura è contagioso. A proposito di balene, curiosamente ieri ho letto il cap. 105: "il punto controverso è se il Leviatano potrà resistere a lungo a una caccia così ampia e a una devastazione così accanita" e alla sera,combinazione, ho iniziato a guardare The Swarm, su raiplay. Se hai tempo, dai uno sguardo. Trovo che la serie sia molto ben fatta, è una coproduzione europea. In una fantascienza inquietante ma purtroppo non molto distante dalla realtà, l'oceano si ribella alla devastazione che ne ha fatto l'uomo. Io resto in attesa della tua live domenichina e ... della finale di Sinner. 👋😁